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Fisiopatologia dello scompenso cardiaco cronico e peptidi natriuretici


Lo scompenso cardiaco cronico costituisce una delle principali problematiche sanitarie dei Paesi industrializzati, in quanto rappresenta lo stato finale comune alla maggior parte delle malattie cardiovascolari, che sono la prima causa di mortalità.
Secondo dati recenti, la prevalenza dello scompenso cardiaco varia fra il 3-20 per 1000 individui nella popolazione generale e fra l’80-160 per 1000 nei soggetti con età superiore a 75 anni; la prognosi dello scompenso cardiaco continua a rimanere infausta essendo la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi pari al 25% per gli uomini e al 38% per le donne.

La mortalità e la morbilità secondarie a questa sindrome hanno iniziato a declinare dall’inizio degli anni ’80 quando sono stati condotti studi clinici di intervento ( CONSENSUS, SOLVD, SAVE, COPERNICUS, CAPRICORN, ELITE, CHARM, RALES, ecc. ) che hanno utilizzato farmaci, quali gli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina ( Ace inibitori ), i beta-bloccanti, gli inibitori recettoriali dell’angiotensina II ( sartani ) e gli antialdosteronici, basandosi non tanto su principi fisiopatologici di tipo emodinamico, quanto sul principio dell’attivazione neuroendocrina.

Più recentemente, l’attenzione dei ricercatori si è concentrata su alcune sostanze di tipo proteico prodotte dai miociti cardiaci, in particolare atriali, in risposta allo stiramento e alla deformazione; tali sostanze, dotate di azione vasodilatante e natriuretica sono i peptidi natriuretici cardiaci [ o peptidi natriuretici atriali, perché isolati dapprima a livello atriale ]:

• ANP ( atrial natriuretic peptide ), prodotto dai cardiomiociti atriali;

• BNP ( brain natriuretic peptide ), prodotto dalle cellule ventricolari ( isolato per la prima volta dal cervello suino );

• CNP ( C-type natriuretic peptide ), prodotto e secreto dall’endotelio e dall’SNC;

• urodilantina, prodotta e secreta dal rene, assente a livello plasmatico e riscontrabile nelle urine;

• dendroapsis natriuretic peptide, isolato nel plasma di alcuni mammiferi, il cui significato fisiopatologico è al momento incerto.

L’effetto finale della cascata molecolare causata dall’entrata in circolo dei peptidi natriuretici atriali è di tipo ipotensivo e antiproliferativo:

• sul sistema cardiovascolare causano infatti vasodilatazione e inibiscono la proliferazione dei miociti vasali e l’ipertrofia delle cellule cardiache, ostacolando il rimodellamento delle camere cardiache;

• sul rene aumentano diuresi e natriuresi agendo direttamente sul tubulo e aumentando il filtrato glomerulare;

• a livello surrenalico inibiscono la secrezione di aldosterone e controregolano il sistema renina-angiotensina-aldosterone.

Di particolare interesse in questa sede è il BNP, inquanto i ventricoli, avendo massa maggiore rispetto agli atri, producono peptidi natriuretici in quantità superiori, quindi meglio rilevabili; bisogna inoltre considerare che il rapporto molecolare di ANP e BNP tende ad aumentare con l’aggravarsi della disfunzione miocardica e dei sintomi di insufficienza cardiaca; ciò lo rende un marcatore più attendibile dello scompenso cardiaco rispetto all’ANP.

Dapprima i miocardiociti producono il precursore iniziale, il pre-pro-ormone, contenente nella porzione N-terminale una breve sequenza segnale, che viene rimossa subito dopo la produzione originando il proormone.
Sotto stimolazione di un segnale specifico, il proBNP prima di entrare in circolo viene scisso da una proteasi specifica in due porzioni: l’ormone in forma attiva, il BNP, che è costituito dalla porzione C-terminale, e la frazione N-terminale, detta appunto NTproBNP, più lunga e biologicamente inattiva.

Sia l’ormone attivo sia il corrispondente pro-ormone sono rilevabili nel circolo ematico; tuttavia, mentre il primo ha emivita breve in circolo a causa di un’alta velocità di degradazione, i pro-ormoni possiedono una maggiore stabilità e di conseguenza hanno concentrazioni plasmatiche più elevate. Inoltre, i loro valori sono più stabili nel tempo, mentre i livelli dei peptidi attivi fluttuano più rapidamente. L’insieme di questi fattori rende i pro-ormoni preferibili come marker di funzionalità cardiaca, in particolare per le alterazioni croniche.

Dopo le prime osservazioni di De Bold, risalenti ai primi anni ’80, si è rapidamente accumulata una considerevole mole di dati circa la possibilità di utilizzare questi peptidi ( e in particolare il BNP ) come marcatori diagnostici e prognostici nel decorso dello scompenso cardiaco; negli ultimi tempi si stanno raccogliendo altresì molteplici segnalazioni circa l’utilizzo di queste sostanze anche in altri contesti clinici ( sindromi coronariche acute, ipertensione arteriosa, aritmie, embolia polmonare, diabete mellito, ecc. ).

Un ulteriore impulso all’utilizzo clinico di queste sostanze è venuto dopo l’identificazione dei loro precursori biochimici; i peptidi natriuretici cardiaci vengono infatti prodotti e immagazzinati nei miocardiociti sotto forma di proormoni.

La valutazione prognostica dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è ancora complessa, e uno degli aspetti più difficili è quello di individuare precocemente i pazienti che, a parità di condizioni cliniche, sono a maggior rischio di evoluzione rapidamente sfavorevole o addirittura di eventi fatali.
La necessità di identificare queste due categorie di pazienti nasce dalla possibilità di intervenire con cure intensive precoci, inserimento in lista per trapianto cardiaco o, in caso di rischio di morte improvvisa, con impianto di pacemaker defibrillatore.

Tuttavia, anche se sono stati riconosciuti alcuni parametri clinici associati agli eventi gravi sopra descritti ( età avanzata, diabete mellito, insufficienza renale, iponatriemia ), nessuno di questi si è dimostrato in grado di predire in modo indipendente la probabilità degli eventi stessi.

Recentemente l’attenzione dei ricercatori si è quindi concentrata sui livelli circolanti del pro-ormone BNP, ossia il proBNP, e si sono raccolte in letteratura diverse segnalazioni a proposito della particolare sensibilità nell’identificare i pazienti a rischio di eventi maggiori quali, appunto, mortalità e destabilizzazione clinica. ( Xagena2007 )

De Bernardi A et al, Cardiologia ambulatoriale 2007;2-3:83-90

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